(I sette doni dello Spirito Santo – La Sapienza) 01/01 – Preghiera per chiedere la Sapienza e approfondimenti.

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Dio dei padri e Signore di misericordia, che tutto hai creato con la tua parola, e che con la tua sapienza hai formato l’uomo, perché dominasse sulle creature che tu hai fatto, e governasse il mondo con santità e giustizia e esercitasse i giudizi con animo retto, dammi la sapienza, che siede accanto a te in trono e non mi escludere dal numero dei tuoi figli, perché io sono tuo schiavo e figlio della tua schiava, uomo debole e di vita breve, incapace di comprendere la giustizia e le leggi.

Se qualcuno fra gli uomini fosse perfetto, privo della sapienza che viene da te, sarebbe stimato un nulla.

Tu mi hai prescelto come re del tuo popolo e giudice dei tuoi figli e delle tue figlie.

Mi hai detto di costruirti un tempio sul tuo santo monte, un altare nella città della tua dimora, un’immagine della terra santa che ti eri preparata fin da principio.

Con te è la sapienza che conosce le tue opere, che era presente quando creavi il mondo; lei sa quel che piace ai tuoi occhi e ciò che è conforme ai tuoi decreti.

Inviala dai cieli santi, mandala dal tuo trono glorioso, perché mi assista e mi affianchi nella mia fatica e io sappia ciò che ti è gradito.

Ella infatti tutto conosce e tutto comprende: mi guiderà con prudenza nelle mie azioni e mi proteggerà con la sua gloria.

Così le mie opere ti saranno gradite; io giudicherò con giustizia il tuo popolo e sarò degno del trono di mio padre.

Quale uomo può conoscere il volere di Dio?

Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?

I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni.

A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?

Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo Santo Spirito?

Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza”.

(Dal libro della Sapienza 9)

Approfondimenti:

Nell’AT la figura del sapiente per antonomasia è quella di Salomone, figlio di Davide.

Prima di ascendere al trono, egli si ritira in preghiera nel tempio di Gabaon e si rivolge al Signore con queste parole:

“Concedi al tuo servo un cuore docile che sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1 Re 3,9).

La narrazione continua dicendo che al Signore piacque che Salomone avesse chiesto la saggezza nel governare e non avesse chiesto gloria, ricchezza e potenza o la morte dei nemici.

Però, dal momento che Salomone ha chiesto la cosa più importante, Dio gli garantisce anche le cose che lui non aveva chiesto.

Dio si compiace di chi si decide a chiedergli la sapienza come prima e più importante ricchezza; chi cerca la sapienza dimostra già con questo di essere un saggio, anche se soggettivamente magari non ritiene affatto di esserlo (cfr. Sir 39,1-11).

Si tratta di desiderare e cercare nella vita ciò che è veramente essenziale: questo è già dono di sapienza!

Veniamo al nostro testo.

Nella seconda sezione del libro della Sapienza (Sap 7,1-10,21)
troviamo la preghiera di Salomone per ottenere il dono della sapienza al fine di esercitare il suo servizio secondo il cuore di Dio (9,1-18).

Il presupposto da cui parte il testo è la consapevolezza che l’uomo non possiede la sapienza.

Il versetto 13 contiene infatti due domande parallele:

“Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?” (v.13).

Dal caso particolare di Salomone, si passa all’universalità della natura umana: tis anthrôpos?

Si esclude che la sapienza possa essere prerogativa di qualcuno che non sia Dio stesso.

In tal senso Dio solo conosce il luogo dove la sapienza dimora:

“Da dove viene dunque la saggezza?

Dov’è il luogo dell’intelligenza?

Essa è nascosta agli occhi di ogni vivente, è celata agli uccelli del cielo.

L’abisso e la morte dicono:

‘Ne abbiamo avuto qualche sentore’.

Dio solo conosce la via che vi conduce, egli solo sa il luogo dove risiede”. (Gb 28:20-23).

La domanda della sapienza verte sulla possibilità di “conoscere” (boulên) il volere di Dio”: vale a dire la sua volontà, espressa nella Legge.

Nel post-esilio la verità di Dio veniva fatta sussistere nella Legge, per cui praticare la Legge equivaleva ad essere saggi
e ignorarla o non praticarla significava percorrere la via sella stoltezza.

Ne deriva la coscienza che la vera “sapienza” è frutto di rivelazione divina, quindi un dono di Dio.

Tuttavia l’uomo rimane troppo limitato nelle sue possibilità (cfr. vv. 5-6) per essere in grado di penetrare il mistero di Dio, e poterne scoprire e comprendere i disegni, anche dopo che sono stati rivelati.

Il versetto successivo contiene due affermazioni parallele:

«I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni (v. 14).

L’idea dell’autore riguardo alle nostre possibilità di conoscere la verità (il disegno di Dio) è piuttosto pessimistica: l’uomo,
abbandonato a se stesso, cammina nelle tenebre dell’ignoranza e dell’insicurezza.

Nella terminologia platonica si direbbe che, a causa della sua natura materiale, l’uomo non può arrivare più in là delle opinioni.

Ma come mai si dà questa situazione nell’essere umano?

L’autore ne individua il motivo nel limite creaturale aggravato dal peccato:

«perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni» (v. 15).

L’autore, permeato da una cultura e filosofia ellenistica, si attiene fedele alla dicotomia corpo-anima (cfr. 1,4; 8,18-20; 15,8.11.16).

Per lui il “corpo corruttibile” si identifica con quanto si potrebbe chiamare vita istintiva, forze irrazionali che
intorbidano la mente, oscuri impulsi del subconscio, non chiariti o mal razionalizzati.

Il termine «tenda» è una metafora ed è tratta dalla vita nomade per indicare ciò che è passeggero, e dunque adatta al corpo corruttibile (cfr. Is 38,12; Gb 4,19-21; 2Cor 5,4; 2Pt
1,13-14).

L’aggettivo «d’argilla» è un’allusione all’origine del corpo secondo Gen 2,7 (cfr. Gen 3,19; Sap 15,8): il corpo, radicato nella terra, solidale con i beni puramente terreni, temporali, transitori, frena il volo della mente verso ciò che è spirituale,
celeste, immortale.

La mente (nous) invece è l’anima stessa, identificata con la ragione, principio spirituale che dà vita al corpo e si eleva spontaneamente al mondo superiore.

Cosicché ogni tendenza pura, o pensiero elevato, spiritualizzante, è sempre stato attribuito all’anima umana, e ogni moto legato al mondo materiale è stato imputato
al corpo corruttibile.

La vita dell’uomo si sviluppa perciò in una continua dialettica,
potremmo definirla tensione insanabile, fra “il corpo” e “l’anima”.

Paolo parlerà di una lotta tra “carne” e “spirito”.

Il limite di ogni creatura umana si manifesta perciò nella sua incapacità di conoscere e perciò di amare ciò che appartiene alla realtà invisibile:

«A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?» (v. 16).

L’espressione «le cose della terra» indica ciò che
accade sulla terra, ciò che l’uomo può verificare e controllare, le cose che sono a portata di mano, tangibili, sperimentabili direttamente, visibili, vale a dire ciò che non supera la
normale capacità dell’uomo terreno, tutto ciò che dovrebbe essere trasparente e ovvio per lui.

Tutte queste cose dovrebbero essere conosciute facilmente.

Tuttavia, non è così: solo con notevole sforzo riusciamo ad appropriarci delle cose, dominandole appena con le nostre imperfette capacità.

La verità è che ogni giorno sperimentiamo che la realtà ci sfugge di mano.

A maggior ragione la domanda finale del versetto mette in luce la conseguente ineluttabile impossibilità di investigare e conoscere «le cose del cielo».

Nel linguaggio biblico il cielo è metaforicamente la dimora di Dio (cfr. v. 10a).

Le cose del cielo sono quelle che appartengono all’ambito divino.

A tale debolezza umana conseguente il peccato che ha procurato una divisione nel cuore dell’uomo rendendogli impossibile una perfetta consonanza con il volere
divino, Dio nella sua misericordia supplisce mandando la sapienza:

«Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?» (v. 17).

In questo versetto, nel quale convergono quasi tutti i temi toccati dall’autore durante la preghiera, si trovano tre dei grandi temi trattati dal giudaismo postesilico:

la volontà di Dio, la sapienza e lo spirito.

Il volere di Dio non è altro che la volontà divina, ciò che Dio vuole relativamente all’uomo, e che si può conoscere soltanto se Dio liberamente si rivela o manifesta (cfr. Dt 30,12), e se il
Signore concede all’uomo il dono della sapienza (cfr. Bar 3,29): è stato, questo, il motivo di tutto il cap. 9, ma al termine l’autore lo proclama più solennemente, poiché oltre alla sapienza richiede il «santo spirito del Signore».

Secondo il parallelismo, il santo spirito equivale alla sapienza del Signore.

Paolo nella seconda ai Corinti riprenderà lo stesso concetto:

“Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo
che è in lui?

Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio.

Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato” (2Cor 2,11-12).

Il brano iniziato in tonalità minore termina con un accento estremamente positivo:

«Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza» (v. 18).

I tre verbi di questo periodo sono all’aoristo (Formazione verbale propria una volta di tutte le lingue indoeuropee, conservata in modo vitale soltanto in greco, già in decadenza nelle lingue indoiraniche. … Formalmente esistono due tipi d’aoristo dalla più alta antichità.), in quanto il v. 18 conferma la preghiera di Salomone («solo così…»), ma conservano anche il loro, come dimostrano gli esempi del cap. 10.

Gli aoristi sono al passivo, che deve essere inteso come un passivo teologico, dato che in ultima analisi esprimono l’azione di Dio per mezzo del suo spirito di sapienza.

Quest’azione di Dio è un dono che fa sì che gli uomini possano camminare rettamente, una luce interiore per cui possono conoscere quel che è gradito al Signore, al fine di poter
essere salvati (Isaia applicherà la pienezza di questo dono al re messia).

Nonostante la debolezza dell’uomo, Dio manda su di lui la sapienza, che gli indica il giusto cammino o il modo di vivere conforme alla sua volontà.

È quindi mediante la sapienza che si compie nella storia il piano salvifico di Dio.

Per cui il dono della sapienza è da considerarsi realmente come essenziale affinché l’uomo possa essere salvato.

Ecco perché tra i doni di Dio, la sapienza è considerato non solo il più prezioso bensì quello più necessario in ordine alla salvezza:

“Preferii la sapienza a scettri e a troni… preferii il suo possesso alla stessa luce, perché non tramonta il suo splendore.

Insieme con essa mi sono venuti tutti i beni” (Sap 7,8.10-11).

L’uomo privo della divina sapienza, anche se completo nelle sue doti naturali, può considerarsi un nulla:

Se anche uno fosse il più perfetto tra gli uomini, mancandogli la tua sapienza, sarebbe stimato un nulla (Sap 9,6).

Già nel nostro testo, come in molti altri, si intravvedere una riflessione che porterà la comunità cristiana a contemplare Gesù come sapienza incarnata e come colui che invia lo Spirito di sapienza.

Questo soprattutto nei testi giovannei e paolini.

Nel suo prologo Giovanni attribuisce a Gesù-Logos le prerogative della sapienza, aggiungendovi la natura divina (Gv 1,1-4): il Logos, che pone la sua tenda in mezzo agli uomini, è Dio, dal principio presso Dio, artefice della creazione, colui che rivela all’uomo il volto di Dio.

Ma si tratterà di una sapienza “che non è di questo mondo” e che anzi il mondo rifiuta e che raggiunge il suo vertice sulla croce.

Una ulteriore indicazione viene data da Gesù stesso quando afferma che egli donerà ai suoi lo Spirito Santo per guidarli alla “verità tutta intera” (Gv 16,13).

In questo contesto è possibile la riflessione sul dono della sapienza come caratteristica del sostegno dello Spirito Santo dato alla chiesa e ai singoli credenti in ordine ad una conoscenza saporosa sempre più profonda e coerente della verità che è Cristo stesso.

La sapienza nella vita del cristiano.

Il termine sapienza non vuol dire propriamente sapere, e tanto meno solo scienza o intelligenza.

Il verbo latino “sàpere” allude al gusto (sapio) delle cose.

Salomone non chiede solo di “conoscere” ma di discernere la volontà di Dio: questo è di chi amando il Signore desidera conformarsi a lui.

All’anima non basta la verità intellettuale della fede.

Occorre che questa verità sia impregnata dal
gusto dell’amore, di modo che Dio non sia solamente la persona creduta, ma anche la persona amata che suscita nell’anima il desiderio di conoscerla senza fine.

Scrive papa Francesco nell’enciclica Lumen Fidei:

“Se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore.

Amore e verità non si possono
separare.

Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona” (n.28).

Ciò che rende possibile questa unione tra verità e amore è appunto il dono della sapienza che è non solo raggio di luce ma
anche raggio di calore.

È capacità di “gustare Dio”, “le cose di Dio”:

“Gustate e vedete quant’è buono il Signore!” (Sal 33,9).

Questo è importante per la nostra vita spirituale e il nostro
ministero perché un Dio che non si gusta mai, diventa un Dio insipido, che sa di stantio e che dà nausea, e che perciò si fa presto a lasciar stare e di cui non si parla volentieri.

Il nostro pericolo più reale, soprattutto come ministri tentati
sempre da una vena di “intellettualismo”, è cadere in un cristianesimo che ci diventa un po’ insipido, senza calore, e che di conseguenza non si ha il desiderio né di annunciare né di testimoniare.

In qual misura ad esempio le nostre omelie sono intrise di “sapienza”?
Sapienza è capacità di entrare e assaporare la realtà delle cose – essa è presente nella creazione –

Con te è la sapienza che conosce le tue opere, che era presente quando creavi il mondo – ovvero Dio stesso.

Il dono della sapienza apre infatti l’anima non solo alla contemplazione di Dio, ma questa contemplazione del gusto di Dio discende al gusto per le cose terrene, apprezzandole e vivendole per quello che veramente valgono.

È la capacità di penetrare nel senso profondo dell’essere, della vita e della storia, andando oltre la superficie delle cose e degli eventi per scoprirne il significato ultimo, voluto dal Signore” (s. Giovanni Paolo II).

È vedere la realtà con gli occhi di Dio, sentire con le orecchie di Dio, amare con il cuore di Dio, giudicare le cose con il giudizio di Dio:

“Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo
nuovo, in unione con la persona amata.

Si tratta di un modo relazionale di guardare il mondo, che diventa conoscenza condivisa, visione nella visione
dell’altro e visione comune su tutte le cose” (Lumen Fidei n.28): questa è la sapienza che ci regala lo Spirito Santo.

Sapienza e stoltezza

1. Afferma Tommaso d’Aquino:

“Alla sapienza si oppone la stoltezza, che è di chi non si commuove neppure per ciò che fa stupire, e che consiste nell’ottusità del cuore e del senso; alla sapienza si oppone pure la fatuità, che consiste nella privazione totale del senso spirituale” (Summa Theologica, II, 2, 46).

La stoltezza è l’ottusità, la chiusura del cuore che non sa più “stupirsi” ovvero aprirsi, ne deriva la “mancanza di antenne” (Kasper) per le realtà spirituali.

E’ una situazione denunziata anche da Paolo quando afferma, sulla linea del testo della Sapienza, che:

“L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle”. (1Cor 2).

E’ la perdita della capacità di “gustare e vedere Dio”.

All’uomo sembrano ormai bastare “le cose della terra”.

Quali vie percorrere per riaccendere lo stupore commosso ricordando a questo proposito il detto di san Gregorio di Nissa: “Solo lo stupore conosce” ?

2. Quando viene meno lo stupore l’uomo si accontenta solo di altri stupori immediatamente a portata di mano: si cerca di dare sapore alla vita, ma ci si accontenta del sapore più a portata di mano, dal subito adesso.

Dentro questo contesto culturale in nome di piccoli sapori si può lasciar spegnere la richiesta di un sapore più grande ma paradossalmente più nascosto.

Nel libro della Sapienza (Sap 13,1-9) c’è un rimprovero a quelli che avendo visto le bellezze del creato entusiasti e incantati si sono accontentati e si sono fermati nella ricerca: come mai non sono riusciti a risalire all’autore di questa bellezza e di questa
bontà che è ancora più bello e ancora più buono?

L’Apostolo Paolo racchiude sotto lo stesso rimprovero tutta la grecità pagana:

“Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti” (Rm 1,22).

3. Alcune volte poi ci intestardiamo, induriamo nelle nostre posizioni, insistiamo nel voler vedere la realtà solo dal nostro punto di vista, a partire dalle disposizioni, attese.

Pretendiamo che la realtà si pieghi al nostro desiderio.

Tale esperienza porta alla delusione, al disgusto per la vita, che non si riesce più “a digerire” nella sua pesantezza.

Pensiamo alle delusioni di amore, alle delusioni nel ministero: al principio sembrava di aver trovato tutto, poi pian piano le
cose cambiano, la realtà sembra altra, quel sapore che avevamo sperimentato o intuito sembra svanire e si soffre: la vita diventa un dovere, una fatica: si passa dal sapore di vivere al dover di vivere, a un lasciarsi vivere, che si tramuta in
una inconsapevole stoltezza.

Isacco di Ninive in una preghiera chiede:

“Soprattutto, mio Dio, custodiscimi dalla stupidità dell’intelletto che pensa cose erronee, colme di insania e da compiangere (Disc VII, 44-45).

4. A questo punto è chiaro che la stupidità non potrà essere vinta impartendo degli insegnamenti, ma solo da un atto di liberazione operato dallo Spirito di Dio.

La Bibbia, affermando che il timore di Dio è l’inizio della sapienza (Salmo 111,10), dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita accade quando l’uomo si apre al mistero della vita e di Dio: questa è l’unica reale vittoria sulla
stupidità.

Concludiamo con una preghiera di san di Sant’Agostino:

Vieni in me, Spirito Santo, Spirito di sapienza: donami lo sguardo e l ’udito interiore, perché non mi attacchi alle cose
materiali ma ricerchi sempre le realtà spirituali.

Vieni in me, Spirito Santo, Spirito dell’amore: riversa sempre più la carità nel mio cuore.

Vieni in me, Spirito Santo, Spirito di verità: concedimi di pervenire alla conoscenza della verità in tutta la sua
pienezza.

Vieni in me, Spirito Santo, acqua viva che zampilla per la vita eterna: fammi la grazia di giungere a contemplare il volto del Padre nella vita e nella gioia
senza fine.

Amen.